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Troppi selfie in camice: ecco la generazione degli oss 2.0

Sguardi seducenti, labbra carnose che mandano baci, sorrisi che ricordano una vecchia pubblicità di dentifrici.  A fare da sfondo, letti di degenza e corsie ospedaliere. Sono le gesta memorabili di chi non rinuncia mai al piacere di auto immortalarsi, neanche quando si indossa un camice. Quello dei selfie a lavoro è diventato un fenomeno sempre più diffuso in ogni ambito professionale, compreso quello dell’assistenza socio-sanitaria. Nell’ultimo decennio i social hanno messo in mostra (non solo e non sempre per fortuna) il lato peggiore del genere umano. Una tendenza orripilante che non ha risparmiato nessuno, neanche medici, infermieri ed Operatori socio-sanitari. In questo articolo parlerò della generazione degli Oss 2.0, della loro mania e dei rischi correlati ad essa.

“Basta selfie”, a lanciare l’allarme proprio il Ministero della Salute.

La questione non è assolutamente nuova, ma è stata affrontata più di tre anni fa, quando il Ministero della Salute dovette intervenire inviando una circolare alla Federazione degli ordine dei medici, agli Infermieri e a tutti gli Operatori socio sanitari, impegnati nelle strutture pubbliche e privati. Già allora, il fenomeno dei “selfie in camice” era sfuggito di mano a tanti, al punto da diventare una tendenza dilagante e costringere l’allora ministro, Beatrice Lorenzin, a prendere seri provvedimenti. Nella nota si esortava tutti i professionisti della sanità ad evitare ogni forma di spettacolarizzazione del luogo di lavoro con l’utilizzo improprio di smartphone. Un caso scoppiato a seguito di una serie di segnalazioni sui social network dove venivano assiduamente postate foto che ritraevano non solo il personale sanitario, Oss compresi, ma addirittura anche pazienti in fin di vita.  Ad oltre tre anni da quel provvedimento ministeriale, il fenomeno non sembra proprio attenuarsi. Basta vedere i profili Facebook ed Instagram di quegli operatori che ogni giorno ci deliziano con foto in tenuta da lavoro e sguardi ammiccanti diretti verso l’obiettivo.

Cosa spinge un operatore a fare un selfie?

Con non poche difficoltà provo a dare una risposta a questa domanda. Quella del selfie è una moda perversa lanciata prima da qualche vip a caccia di visibilità, ma che poi ha preso piede anche tra i “comuni mortali”. La pratica dell’ “autoscatto” in ogni momento della giornata, e dunque anche durante le ore lavorative, ha via via coinvolto i lavoratori di ogni categoria, compresi gli Operatori Socio-Sanitari. Probabilmente il desiderio di farsi notare in tenuta da lavoro (forse il fascino del camice?) è troppo forte per non essere condiviso con tutti gli utenti dei social. Una tentazione irrinunciabile per i narcisisti cronici continuamente a caccia di quel like che potrebbe miracolosamente cambiare in positivo una giornata storta. Un bisogno di attenzione inspiegabile, un’ossessione maniacale incontrollata che spinge l’operatore “selfista” (chiamiamolo così) a violare delle regole senza neanche rendersene conto. Sulla questione intervennero qualche anno fa anche alcuni studiosi dell’ American Psychiatric Association, i quali sostennero che dietro ad un selfie in realtà si celasse un vuoto esistenziale, che nel peggiore dei casi può sfociare in un vera e propria malattia mentale.

Cosa rischia un operatore che fa un selfie a lavoro?

Faccio una premessa. Chi scrive non è un avvocato, ma un Operatore Socio-Sanitario. Le informazione che sto per darti sono il frutto di una consultazione rapida di alcuni siti internet che trattano argomenti d’interesse legale. Se decidi di fare un selfie durante le ore di lavoro, sappi che puoi andare incontro ad una serie di conseguenze non particolarmente piacevoli per te. Il primo rischio concreto è il licenziamento per giusta causa. Stai utilizzando uno smartphone in un luogo in cui, generalmente, ne è consentito l’uso solo in casi eccezionali, e credo proprio che un selfie non rientri in nessuno di questi casi. In un ambiente sanitario, tra l’altro, la presenza di un telefonino violerebbe alcune norme igieniche fondamentali. Se lo scatto, poi, dovesse essere divulgato sul web, con il pericolo di diffondere dati sensibili, strumenti di lavoro strettamente riservati o peggio ancora volti di pazienti e minori, il rischio è anche maggiore. Chi compie questa infrazione, infatti, può andare incontro a gravi conseguenze. Se il paziente immortalato dovesse accorgersi che il suo volto sia presente a sua insaputa sui social, oltre ad esigere la rimozione della foto, potrebbe chiedere un risarcimento, qualora venisse accertato che da tale atto ne fosse scaturito un danno. Nel peggiore dei casi, l’autore della foto potrebbe essere addirittura punito con la reclusione fino a un massimo di due anni.

Marco Amico

Operatore Socio-Sanitario, blogger e giornalista. Ho 37 anni, una laurea in Lettere e Filosofia e la passione per la scrittura, le serie TV, le bici. Lavoro in una casa di riposo e nel tempo libero scrivo articoli d'interesse socio-sanitario.

Un pensiero su “Troppi selfie in camice: ecco la generazione degli oss 2.0

  • Andrea Dulicchio

    Buonasera Marco, ho letto il suo articolo insieme ad altri perché, da formatore per corsi Oss (sono OSS, Psicologo e Psicoterapeuta) e avendo trovato una lacuna rispetto al formare i futuri OSS su tale argomento, mi sto documentando. Anch’io sono digiuno dei risvolti legali precisi di tale tipo di azione (cercherò di informarmi ulteriormente) ma è innegabile che il problema sia serio più di quanto si pensi.
    I risvolti sono molteplici e, oltre ad interessare un campo prettamente sanzionatile per vie legali, credo chiami in causa anche un aspetto etico e deontologico del proprio lavoro nonché tenda a fornire un’immagine molto poco seria e professionale della categoria (naturalmente si sta parlando di OSS ma sono inclusi anche medici ed infermieri). La ringrazio per aver esposto il suo punto to di vista e le auguro buon lavoro! P.S. Per quanto riguarda i risvolti legati alla legge sulla Privacy connessa al mio lavoro di terapeuta la questione è molto delicata e sovente, alcuni miei colleghi, sottovalutano la cosa. Non basta camuffare il nome e la data per condividere un caso di un paziente con un altro collega. La cosa deve essere fatta solo e soltanto se strettamente necessaria a fini di supervisione e quindi di salute del paziente. Sovente mi capita di trovare colleghi (psicologi e psicoterapeuti) che riportano discorsi fatti con pazienti in seduta. Indipendentemente dal problema della sanzionabilità o meno lo trovo di cattivo gusto e sempre poco rispettoso di chi si apre a noi professionisti della salute.

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